Nomi
Reperti dell'Età del Bronzo, del Ferro, della Romanità qualificano Nomi come un insediamento antichissimo, posto alle pendici del Monte Corona (mt 865), in destra Adige. La prima testimonianza scritta di epoca altomedievale (''de Nomio'', XII sec.) è poi seguita da copiosa documentazione, che testimonia il dominio dei Castelbarco (fino al 1499). Nel 1487 il Castello di Nomi fu bruciato e raso al suolo dai Veneziani. Poi, tra regalie, conquiste, eredità e vendite, il dominio passò ai Busio Castelletti (milanesi di antico lignaggio) che conservarono la signoria fino al 1646. Il nobile Pietro Busio, in uno degli episodi più famosi e cruenti della Guerra Rustica, fu arso vivo nell'incendio della torretta rotonda della sua residenza (tuttora esistente) il 3 luglio 1525. Fu poi la volta dei Baroni Fedrigazzi, (originari di Arco, resi nobili per meriti ''commerciali'') e poi (per matrimonio con l'ultima erede) dei Baroni Moll, ai primi dell'800. Nomi fece anche parte, dal 1500 al 1800 ca., del cosiddetto ''Comun Comunale'', associazione amministrativa tra diversi paesi confinanti, sorta di Comunità di Valle ante litteram. La prima metà del XX sec., con le due Guerre Mondiali, vide anche a Nomi lutti e disastri, come pure eroismi e Resistenza. Assolutamente da vedere il formidabile ed unico complesso costituito dai ruderi di Castel Nomi (recentemente sistemati a cura del Servizio Archeologico Provinciale) sulla rocca del Monte Corona, collegati da imponenti mura merlate con le strutture a valle: Palazzo Vecchio (residenza fortificata quattrocentesca, con la famosa Torretta Busio). La Chiesa Parrocchiale, dedicata alla Madonna della Consolazione, che si celebra ogni ultima domenica d'agosto, ospita numerose opere d'arte di varie epoche: dalle porte laterali in bronzo di L. Carnessali (1967), alle pregevoli decorazioni ottocentesche della volta interna, alle tele del '600 a lato del significativo altare barocco con marmi policromi, intarsi e statue. Il crocifisso ligneo è di Leonardo Gaggia e vi è una pala di s. Zeno. Le vetrate policrome sono del 1913, l'organo in cassa liberty con intarsi dorati fu realizzato in Slesia dai fratelli Rieger nel 1886. A lato dell'ingresso principale è murato il monumento funebre del Barone Enrico de Moll, Capitano di Vascello austro-ungarico morto il 22 luglio 1866 nella battaglia di Lissa. Patrimonio della Chiesa è una preziosa tavola della Madonna con S. Caterina, dipinta dal padovano Francesco Cattaneo nel 1396. Del campanile, staccato dal corpo della Chiesa, è stato posto in evidenza l'antichissimo primo nucleo, con basamento, parte dell'affusto e due finestrelle. Non si contano, nell'ambito del Paese Vecchio, portoni, androni, portali, ballatoi, logge, archi, manufatti in pietra, antichi affreschi che rendono piacevoli il passeggio e la scoperta. |
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Castel Nomi
Nelle fonti del 1188 compare per la prima volta Pietro di Nomi, signore del castello, che partecipa ad una riunione feudale tenutasi ad Egna, mentre la prima menzione del "castrum de Numio" è molto più tarda e risale al 1333.
I resti del castello sorgono a precipizio sullo sperone roccioso del dosso Corona, soprastante l’abitato di Nomi. La posizione permetteva uno straordinario controllo visivo del territorio, e la struttura era parte integrante del complesso di chiusa fortificata organizzato tra Nomi e Castel Pietra, al di là dell’Adige, sfruttando la morfologia del territorio determinata dall’antico corso del fiume.
La storia del castello di Nomi risulta di non facile ricostruzione a causa della penuria documentaria. In data imprecisata tra il XIII e il XIV secolo la fortificazione entra a far parte dei domini della famiglia Castelbarco: nel 1333 il castrum compare infatti tra i beni che vengono suddivisi tra i figli di Aldrighetto Castelbarco di Lizzana. Passato ad Azzone, nel 1407 giunge per via ereditaria nelle mani di Marcabruno II da Beseno. Proprio nel Quattrocento, periodo della formazione del dominio veneziano nel Trentino meridionale, il castello sembra vivere i momenti di maggior importanza grazie al valore strategico determinato dallo stabilizzarsi del confine tra impero e Serenissima proprio all’altezza di Nomi-Calliano. Stando alle cronache, nel luglio del 1487, qualche tempo prima della battaglia di Calliano, Castel Nomi viene espugnato e saccheggiato dall’esercito veneziano guidato da Roberto da Sanseverino. I Veneti riorganizzano le difese del castello in vista di successivi scontri contro i Tirolesi, ma la sconfitta inflitta alla Serenissima nella battaglia di Calliano permette il ritorno del castello all´interno dei domini imperiali. Ritornato in un primo tempo ai Castelbarco, viene nuovamente acquisito da Massimiliano I, ma la sua storia sembra concludersi proprio in questi anni: un documento d’infeudazione del 1507menziona infatti il dosso dove un tempo un castello era edificato. Questa ed altre testimonianze coeve hanno suggerito che il suo decadimento allo stato di rudere sarebbe avvenuto già tra il XV e il XVI secolo.
Oggi, pur deteriorato a causa dell’incuria e dei danni inflitti dal tempo, Castel Nomi gode ancora di tutto il suo fascino, dovuto alla straordinaria posizione che lo vede ergersi con audacia a precipizio sulla roccia. Recenti ricerche archeologiche hanno permesso di individuare nel complesso due distinte fasi edificatorie: alla prima fase risalirebbero il nucleo originario e un piccolo forno per l’attività metallurgica; alla fase successiva è invece ascrivibile il rafforzamento delle strutture e in particolare l’approntamento di una nuova cinta fortificata, da attribuire ptobabilmente al periodo di occupazione veneziana.
Nelle fonti del 1188 compare per la prima volta Pietro di Nomi, signore del castello, che partecipa ad una riunione feudale tenutasi ad Egna, mentre la prima menzione del "castrum de Numio" è molto più tarda e risale al 1333.
I resti del castello sorgono a precipizio sullo sperone roccioso del dosso Corona, soprastante l’abitato di Nomi. La posizione permetteva uno straordinario controllo visivo del territorio, e la struttura era parte integrante del complesso di chiusa fortificata organizzato tra Nomi e Castel Pietra, al di là dell’Adige, sfruttando la morfologia del territorio determinata dall’antico corso del fiume.
La storia del castello di Nomi risulta di non facile ricostruzione a causa della penuria documentaria. In data imprecisata tra il XIII e il XIV secolo la fortificazione entra a far parte dei domini della famiglia Castelbarco: nel 1333 il castrum compare infatti tra i beni che vengono suddivisi tra i figli di Aldrighetto Castelbarco di Lizzana. Passato ad Azzone, nel 1407 giunge per via ereditaria nelle mani di Marcabruno II da Beseno. Proprio nel Quattrocento, periodo della formazione del dominio veneziano nel Trentino meridionale, il castello sembra vivere i momenti di maggior importanza grazie al valore strategico determinato dallo stabilizzarsi del confine tra impero e Serenissima proprio all’altezza di Nomi-Calliano. Stando alle cronache, nel luglio del 1487, qualche tempo prima della battaglia di Calliano, Castel Nomi viene espugnato e saccheggiato dall’esercito veneziano guidato da Roberto da Sanseverino. I Veneti riorganizzano le difese del castello in vista di successivi scontri contro i Tirolesi, ma la sconfitta inflitta alla Serenissima nella battaglia di Calliano permette il ritorno del castello all´interno dei domini imperiali. Ritornato in un primo tempo ai Castelbarco, viene nuovamente acquisito da Massimiliano I, ma la sua storia sembra concludersi proprio in questi anni: un documento d’infeudazione del 1507menziona infatti il dosso dove un tempo un castello era edificato. Questa ed altre testimonianze coeve hanno suggerito che il suo decadimento allo stato di rudere sarebbe avvenuto già tra il XV e il XVI secolo.
Oggi, pur deteriorato a causa dell’incuria e dei danni inflitti dal tempo, Castel Nomi gode ancora di tutto il suo fascino, dovuto alla straordinaria posizione che lo vede ergersi con audacia a precipizio sulla roccia. Recenti ricerche archeologiche hanno permesso di individuare nel complesso due distinte fasi edificatorie: alla prima fase risalirebbero il nucleo originario e un piccolo forno per l’attività metallurgica; alla fase successiva è invece ascrivibile il rafforzamento delle strutture e in particolare l’approntamento di una nuova cinta fortificata, da attribuire ptobabilmente al periodo di occupazione veneziana.
Pomarolo
Ha origini antichissime, probabilmente preromaniche. I Romani lasciarono tracce di un loro insediamento sulla spianata di Servis, una vasta area pianeggiante sopra l’abitato di Savignano, frazione di Pomarolo. A poca distanza dalla frazione, ci sono le rovine di Castelbarco, suggestivi resti dell’antico maniero che ospitò Carlo IV Imperatore. A metà della collina la chiesa di S.Antonio citata già nel 1230 con interessanti altari lignei. E’ accanto alla “Casa di Guerra” protagonista di uno dei romanzi più intensi scritti da Isabella Bossi Fedrigotti e tutt’ora di proprietà della famiglia.
Pomarolo ha la principale attrattiva proprio nel sapore antico delle costruzioni e delle case. Qui ha sede e la mantiene dal secoli “Il Comun Comunale”, un’ istituzione di alto valore civico che aveva lo scopo di regolare l’utilizzo dei beni pubblici di pertinenza del territorio da Cimone a Isera. Oggi se ne ricordano alcuni aspetti folcloristici con una festa d’inizio giugno. Del comune fa parte anche il piccolo abitato di Chiusole direttamente sotto le rovine di Castel Barco.
Pomarolo è culla di alcune famiglie dalle quali nacquero alcuni dei più brillanti ingegni del ‘700 non solo locale, ma anche italiano ed europeo. Felice Fontana, fisico di corte di Pietro Leopoldo di Toscana e sepolto in S.Croce a Firenze (sue opere al Museo della Specola di Firenze), suo fratello Gregorio, docente di matematica all’Università di Pavia, bibliotecario, e infine tra i dirigenti della Repubblica Cisalpina e Gerolamo Tartarotti, letterato e filosofo, diventato celebre in Europa per la sua posizione nettamente e fondatamente contraria alle maligne superstizioni sulle streghe.
Pregio della zona di Pomarolo sono i bellissimi panorami sulla valle che si possono scorgere ad ogni tornante che da Pomarolo sale a Savignano, Servis e Monte Cimana.
Lo stemma di Pomarolo rappresenta un melo su sfondo verde e azzurro, il tronco è scuro, le foglie verdi, i frutti giallo oro. All’altezza del tronco la scritta “EXFRUCTIBUS-ARBOS”.
Ha origini antichissime, probabilmente preromaniche. I Romani lasciarono tracce di un loro insediamento sulla spianata di Servis, una vasta area pianeggiante sopra l’abitato di Savignano, frazione di Pomarolo. A poca distanza dalla frazione, ci sono le rovine di Castelbarco, suggestivi resti dell’antico maniero che ospitò Carlo IV Imperatore. A metà della collina la chiesa di S.Antonio citata già nel 1230 con interessanti altari lignei. E’ accanto alla “Casa di Guerra” protagonista di uno dei romanzi più intensi scritti da Isabella Bossi Fedrigotti e tutt’ora di proprietà della famiglia.
Pomarolo ha la principale attrattiva proprio nel sapore antico delle costruzioni e delle case. Qui ha sede e la mantiene dal secoli “Il Comun Comunale”, un’ istituzione di alto valore civico che aveva lo scopo di regolare l’utilizzo dei beni pubblici di pertinenza del territorio da Cimone a Isera. Oggi se ne ricordano alcuni aspetti folcloristici con una festa d’inizio giugno. Del comune fa parte anche il piccolo abitato di Chiusole direttamente sotto le rovine di Castel Barco.
Pomarolo è culla di alcune famiglie dalle quali nacquero alcuni dei più brillanti ingegni del ‘700 non solo locale, ma anche italiano ed europeo. Felice Fontana, fisico di corte di Pietro Leopoldo di Toscana e sepolto in S.Croce a Firenze (sue opere al Museo della Specola di Firenze), suo fratello Gregorio, docente di matematica all’Università di Pavia, bibliotecario, e infine tra i dirigenti della Repubblica Cisalpina e Gerolamo Tartarotti, letterato e filosofo, diventato celebre in Europa per la sua posizione nettamente e fondatamente contraria alle maligne superstizioni sulle streghe.
Pregio della zona di Pomarolo sono i bellissimi panorami sulla valle che si possono scorgere ad ogni tornante che da Pomarolo sale a Savignano, Servis e Monte Cimana.
Lo stemma di Pomarolo rappresenta un melo su sfondo verde e azzurro, il tronco è scuro, le foglie verdi, i frutti giallo oro. All’altezza del tronco la scritta “EXFRUCTIBUS-ARBOS”.
Villa Lagarina
Preistoria
Le ottime condizioni climatiche ed ambientali hanno favorito l'insediamento umano sul territorio di Villa Lagarina fin dalla preistoria (neolitico, periodo del bronzo e del ferro). Ne sono testimonianza i numerosi reperti archeologici ritrovati nella grotta delle Orsoline a Pedersano, sul dosso Pal Alt a Cesoino, a Castellano (castelliere dei Pizzini) e sul colle di S. Martino nella zona di Cei.
Nel corso dei secoli la zona conobbe il sovrapporsi di diverse popolazioni e culture, la cui eredità è oggi riscontrabile nella toponomastica, nell'antropizzazione del territorio, nelle testimonianze artistiche ed architettoniche che impreziosiscono l'intero territorio comunale
Romani e Longobardi
I sempre più frequenti rapporti tra le popolazioni retiche (gallo-cenomani) e quelle romane si concretizzano, nel corso del primo secolo avanti Cristo, con la romanizzazione della Valle Lagarina. Gran parte del territorio della Destra Adige ha fornito materiale archeologico di epoca romana; gli insediamenti più interessanti si possono riconoscere nella zona di Servis (continuazione dell'area Pedersano-Cesoino), nella villa romana di Isera e nella fornace del Prà del Rovro (valle di Cei). Nel VI secolo dopo Cristo il territorio lagarino venne occupato dalle popolazioni longobarde. A questo periodo (584 d.C.) risale la prima menzione del nome Làgaro, sede di una contea longobarda ("Storia dei Longobardi" di Paolo Diacono), in seguito usato per identificare tutta la parte meridionale della valle dell'Adige. Il termine sarà poi ripreso per l'abitato di Villa Lagarina, che fino a tutto il xvi secolo veniva chiamato semplicemente Villa, anche se l'dentità di questo paese con la Làgaro longobarda è tutt'altro che provato. Tra le testimonianze longobarde giunte fino a noi è da segnalare la fibula zoomorfa rinvenuta a Torano (Pedersano) nel 1884, oggi conservata presso il Museo Civico di Rovereto.
Pieve e Comun Comunale
Se può risultare incerto identificare Làgaro con l'odierna Villa Lagarina, non esistono invece dubbi circa l'antichissima origine della pieve di S. Maria di Làgaro e circa il fatto che essa, chiesa madre per tutto il territorio della Destra Adige da Isera a Cimone, coincida con la chiesa di S. Maria Assunta di Villa Lagarina. Il ruolo di preminenza, di capoluogo che Villa Lagarina ebbe nel tempo su una vasta parte della Destra Adige, non si limita però al solo aspetto ecclesiastico, ma si riconosce anche in un ente amministrativo ben preciso, quella "Universitas comunitatum plebatus Làgari" che, sorta attorno all'omonima pieve, a partire da XVI secolo assumerà il nome più conosciuto di Comun Comunale. Fino al Cinquecento, quando passerà a Pomarolo, la sede del Comun Comunale era a Villa Lagarina, dove nella piazza antistante la pieve si tenevano le assemblee pubbliche (regole generali) alle quali intervenivano tutti i paesi da Cimone a Isera.
Medioevo e Rinascimento
Con l'istituzione del Principato Vescovile di Trento (1027) inizia il periodo feudale che per il territorio di Villa Lagarina si caratterizza con la formazione delle giurisdizioni di Castel Nuovo e Castellano, facenti capo ad altrettante costruzioni fortificate. Nei primi tre secoli dopo il mille il potere feudale territoriale passa per diverse famiglie locali fino ad arrivare saldamente nelle mani dei Castelbarco. Nel 1456 le giurisdizioni vescovili di Castellano (con Villa Lagarina) e Castelnuovo (con Nogaredo) diventano feudi della famiglia dei conti Lodron, che le governerà ininterrottamente fino agli inizi dell'800, quando verranno soppresse.
Nel corso di questo quattro secoli i Lodron, in particolare Paride il Grande (1586-1653), Principe Arcivescovo di Salisburgo, realizzarono o promossero numerose opere, istituirono fondazioni, costruirono chiese ed edifici civili, trasformarono Villa Lagarina, che prima del loro arrivo era un modesto paesino, in un borgo dotato di splendidi palazzi, frequentato da famiglie nobili e colte e ben inserito nella vita socile, economica e culturale dell'epoca.
Dal 1700 al 1800
Nel lungo periodo intercorso fra il passaggio dei Francesi del generale Vendomme nel 1703 e il successivo sconvolgimento napoleonico, il comune di Villa Lagarina, come peraltro tutta la zona, visse un periodo di relativo benessere dovuto all'allevamento del baco da seta e all'introduzione di alcune colture quali la patata e il granoturco. Nel 1774 si istituì la scuola obbligatoria gratuita per i contadini (scuole rurali). Dopo le guerre napoleoniche, oltre all'abolizione delle signorie feudali, furono sciolte anche le antiche comunità. Nel 1818 cessò di vivere quella Comunitas Comunitatum Lagari che si estendeva da Isera ad Aldeno e i cui uomini nel lontano 1133 avevano osato affrontare l'esercito imperiale di Lotario II. In pratica furono divisi fra i nuovi Comuni i beni comunitari rimasti indivisi attraverso i secoli, composti quasi esclusivamente da boschi e prati ed oggi gestiti dai vari usi civici.
Nel 1842 i Lodron, ultimi nel Trentino assieme ai conti d'Arco e Castelbarco, rinunciarono alla giurisdizione e così agli inizi del luglio 1843 a Nogaredo vennero istituiti i giudici imperiali. Sempre nella prima metà del 1800 si registrarono due ondate di colera, una nel 1836 e l'altra nel 1855 con decine di morti; nei soli mesi di luglio ed agosto del 1836 nel Comune di Villa Lagarina persero la vita 87 persone. Alcuni capitelli nei vari paesi ricordano ancora quel triste evento.
La prima guerra mondiale
Con l'entrata in guerra dell'Italia (24 maggio 1815), il Trentino divenne teatro di sanguinosi combattimenti. Per la popolazione locale, già provata dai lutti e dalle sofferenze per le decine di soldati che da dieci mesi combattevano sul fronte russo, sui Carpazi, nella Galizia, iniziava un periodo assai drammatico. La leva in massa privò i paesi di tutti gli uomini validi dai 17 ai 55 anni, lasciando soltanto le donne, i vecchi, i bambini a soffrire spesso la fame. Mentre sullo Zugna e sul Pasubio, i due opposti schieramenti si affrontavano in una logorante guerra di posizione alternata talvolta a violentissimi scontri, nella Destra Adige venivano approntati vari servizi logistici. A Villa Lagarina, presso il palazzo Guerrieri Gonzaga si stabilì un comando austriaco e in casa Libera fu installato un ospedale. Militari di varie nazionalità occuparono con i loro cavalli e mezzi quasi ogni casa del comune. Nella campagna sopra alla ex caserma dei carabinieri fu costruito un forno militare e un'ardita funicolare per Castellano; un'altra più grande venne realizzata nei pressi della chiesa di Santa Maria Assunta. Dalla stazione ferroviaria partiva un trenino che arrivava all'attuale incrocio con semaforo, piegava poi a destra aggirando il paese di Villa Lagarina da Nord Ovest ed arrivava al forno e fin detro palazzo Lodron a Nogaredo.
In vari punti della montagna dal Biaena al Dos Pagano in Cimana si piazzarono batterie di cannoni e mortai; a Castellano funzionava un importante osservatorio.
Preistoria
Le ottime condizioni climatiche ed ambientali hanno favorito l'insediamento umano sul territorio di Villa Lagarina fin dalla preistoria (neolitico, periodo del bronzo e del ferro). Ne sono testimonianza i numerosi reperti archeologici ritrovati nella grotta delle Orsoline a Pedersano, sul dosso Pal Alt a Cesoino, a Castellano (castelliere dei Pizzini) e sul colle di S. Martino nella zona di Cei.
Nel corso dei secoli la zona conobbe il sovrapporsi di diverse popolazioni e culture, la cui eredità è oggi riscontrabile nella toponomastica, nell'antropizzazione del territorio, nelle testimonianze artistiche ed architettoniche che impreziosiscono l'intero territorio comunale
Romani e Longobardi
I sempre più frequenti rapporti tra le popolazioni retiche (gallo-cenomani) e quelle romane si concretizzano, nel corso del primo secolo avanti Cristo, con la romanizzazione della Valle Lagarina. Gran parte del territorio della Destra Adige ha fornito materiale archeologico di epoca romana; gli insediamenti più interessanti si possono riconoscere nella zona di Servis (continuazione dell'area Pedersano-Cesoino), nella villa romana di Isera e nella fornace del Prà del Rovro (valle di Cei). Nel VI secolo dopo Cristo il territorio lagarino venne occupato dalle popolazioni longobarde. A questo periodo (584 d.C.) risale la prima menzione del nome Làgaro, sede di una contea longobarda ("Storia dei Longobardi" di Paolo Diacono), in seguito usato per identificare tutta la parte meridionale della valle dell'Adige. Il termine sarà poi ripreso per l'abitato di Villa Lagarina, che fino a tutto il xvi secolo veniva chiamato semplicemente Villa, anche se l'dentità di questo paese con la Làgaro longobarda è tutt'altro che provato. Tra le testimonianze longobarde giunte fino a noi è da segnalare la fibula zoomorfa rinvenuta a Torano (Pedersano) nel 1884, oggi conservata presso il Museo Civico di Rovereto.
Pieve e Comun Comunale
Se può risultare incerto identificare Làgaro con l'odierna Villa Lagarina, non esistono invece dubbi circa l'antichissima origine della pieve di S. Maria di Làgaro e circa il fatto che essa, chiesa madre per tutto il territorio della Destra Adige da Isera a Cimone, coincida con la chiesa di S. Maria Assunta di Villa Lagarina. Il ruolo di preminenza, di capoluogo che Villa Lagarina ebbe nel tempo su una vasta parte della Destra Adige, non si limita però al solo aspetto ecclesiastico, ma si riconosce anche in un ente amministrativo ben preciso, quella "Universitas comunitatum plebatus Làgari" che, sorta attorno all'omonima pieve, a partire da XVI secolo assumerà il nome più conosciuto di Comun Comunale. Fino al Cinquecento, quando passerà a Pomarolo, la sede del Comun Comunale era a Villa Lagarina, dove nella piazza antistante la pieve si tenevano le assemblee pubbliche (regole generali) alle quali intervenivano tutti i paesi da Cimone a Isera.
Medioevo e Rinascimento
Con l'istituzione del Principato Vescovile di Trento (1027) inizia il periodo feudale che per il territorio di Villa Lagarina si caratterizza con la formazione delle giurisdizioni di Castel Nuovo e Castellano, facenti capo ad altrettante costruzioni fortificate. Nei primi tre secoli dopo il mille il potere feudale territoriale passa per diverse famiglie locali fino ad arrivare saldamente nelle mani dei Castelbarco. Nel 1456 le giurisdizioni vescovili di Castellano (con Villa Lagarina) e Castelnuovo (con Nogaredo) diventano feudi della famiglia dei conti Lodron, che le governerà ininterrottamente fino agli inizi dell'800, quando verranno soppresse.
Nel corso di questo quattro secoli i Lodron, in particolare Paride il Grande (1586-1653), Principe Arcivescovo di Salisburgo, realizzarono o promossero numerose opere, istituirono fondazioni, costruirono chiese ed edifici civili, trasformarono Villa Lagarina, che prima del loro arrivo era un modesto paesino, in un borgo dotato di splendidi palazzi, frequentato da famiglie nobili e colte e ben inserito nella vita socile, economica e culturale dell'epoca.
Dal 1700 al 1800
Nel lungo periodo intercorso fra il passaggio dei Francesi del generale Vendomme nel 1703 e il successivo sconvolgimento napoleonico, il comune di Villa Lagarina, come peraltro tutta la zona, visse un periodo di relativo benessere dovuto all'allevamento del baco da seta e all'introduzione di alcune colture quali la patata e il granoturco. Nel 1774 si istituì la scuola obbligatoria gratuita per i contadini (scuole rurali). Dopo le guerre napoleoniche, oltre all'abolizione delle signorie feudali, furono sciolte anche le antiche comunità. Nel 1818 cessò di vivere quella Comunitas Comunitatum Lagari che si estendeva da Isera ad Aldeno e i cui uomini nel lontano 1133 avevano osato affrontare l'esercito imperiale di Lotario II. In pratica furono divisi fra i nuovi Comuni i beni comunitari rimasti indivisi attraverso i secoli, composti quasi esclusivamente da boschi e prati ed oggi gestiti dai vari usi civici.
Nel 1842 i Lodron, ultimi nel Trentino assieme ai conti d'Arco e Castelbarco, rinunciarono alla giurisdizione e così agli inizi del luglio 1843 a Nogaredo vennero istituiti i giudici imperiali. Sempre nella prima metà del 1800 si registrarono due ondate di colera, una nel 1836 e l'altra nel 1855 con decine di morti; nei soli mesi di luglio ed agosto del 1836 nel Comune di Villa Lagarina persero la vita 87 persone. Alcuni capitelli nei vari paesi ricordano ancora quel triste evento.
La prima guerra mondiale
Con l'entrata in guerra dell'Italia (24 maggio 1815), il Trentino divenne teatro di sanguinosi combattimenti. Per la popolazione locale, già provata dai lutti e dalle sofferenze per le decine di soldati che da dieci mesi combattevano sul fronte russo, sui Carpazi, nella Galizia, iniziava un periodo assai drammatico. La leva in massa privò i paesi di tutti gli uomini validi dai 17 ai 55 anni, lasciando soltanto le donne, i vecchi, i bambini a soffrire spesso la fame. Mentre sullo Zugna e sul Pasubio, i due opposti schieramenti si affrontavano in una logorante guerra di posizione alternata talvolta a violentissimi scontri, nella Destra Adige venivano approntati vari servizi logistici. A Villa Lagarina, presso il palazzo Guerrieri Gonzaga si stabilì un comando austriaco e in casa Libera fu installato un ospedale. Militari di varie nazionalità occuparono con i loro cavalli e mezzi quasi ogni casa del comune. Nella campagna sopra alla ex caserma dei carabinieri fu costruito un forno militare e un'ardita funicolare per Castellano; un'altra più grande venne realizzata nei pressi della chiesa di Santa Maria Assunta. Dalla stazione ferroviaria partiva un trenino che arrivava all'attuale incrocio con semaforo, piegava poi a destra aggirando il paese di Villa Lagarina da Nord Ovest ed arrivava al forno e fin detro palazzo Lodron a Nogaredo.
In vari punti della montagna dal Biaena al Dos Pagano in Cimana si piazzarono batterie di cannoni e mortai; a Castellano funzionava un importante osservatorio.
Isera
Le prime tracce di civiltà nel comune di Isera risalgono a un'epoca molto remota, infatti, la località "Corsi di Isera" situata tra l'omonimo abitato e quello di Ravazzone di Mori, è circondata da numerose colline di origine vulcanica che a più riprese sono state interessate da ritrovamenti archeologici. L'archeologo Paolo Rossi e in seguito nel 1970 l'inglese Bearfield,grazie ai loro ritrovamenti, collocarono questa stazione in epoca Neolitica. Data la conformazione geografica del territorio, si può inoltre dedurre che il terreno fosse paludoso e inabitabile causa le frequenti inondazioni del fiume Adige, che in quell'epoca doveva avere una portata molto maggiore; si può stabilire quindi, che le piccole comunità insediativi si dedicassero alla pesca e al commercio con le altre comunità stanziate lungo la valle, ciò è testimoniato da ritrovamenti quali selci lavorate tramite scheggiatura che hanno forma di punte di lancia, seghetti ed arpioni.
Vi è poi un importante complesso risalente all'epoca augustea ossia la villa romana, unica in tutta la val d'Adige. Essa è articolata un due quartieri ben distinti e complementari: la pars urbana, con sale di rappresentanza, ambienti di soggiorno e aree balneari decorate da notevoli affreschi e mosaici, e la pars rustica, composta dai locali e dalle strutture necessari al funzionamento produttivo. Mosaici, affreschi murali e ceramiche hanno consentito agli storici non solo di datare la struttura ma anche di dividerla in tre distinte fasi cronologiche, la prima risalente al I secolo d.C.; la seconda in età tardo antica e la terza fase risalente al XVI.
Su una collina, presso la piccola frazione di Cornalè sorgeva poi Castel Pradaglia complesso di origine romana costruito sicuramente sopra i resti di un antico castelliere d'epoca preistorica e il cui nome deriva probabilmente da prataglia che significa località ricoperta di prati infatti i terreni adiacenti dovevano essere in tempi remoti un estensione verde. Esso si trovava in una posizione molto favorevole per gli usi per cui era stato costruito, cioè come mezzo di difesa e di controllo; inoltre l'essere dirimpetto al castello di Lizzana formava una barriera non facilmente superabile. Di questo castello non si hanno dati precisi riguardanti la prima costruzione infatti i primi documenti che ne parlano risalgono al XII secolo. Si sa inoltre che il castello fu posseduto da feudatari fino a detto secolo ma poi fu venduto al Princevescovo di Trento il quale lo affidò a un certo Crescendone de Pradaja. La valle dell'Adige dopo un periodo di tranquillità e pacifica convivenza è stata interessata nel 1703 dall'invasione francese in seguito a una guerra nata per il trono di Spagna che in quell'epoca era molto vasto e comprendeva oltre alla Spagna anche la Sardegna, Napoli, la Sicilia, il Milanese e i Paesi Bassi. I Francesi durante la loro avanzata contro i tedeschi; secondo quanto scritto nell'opuscolo: "Isera, memorie e versi" Il generale francese impose al massaro di Isera, uno dei signori Ravagni, la consegna di un enorme quantità di denaro entro poche ore pena la completa distruzione del paese. Il Ravagni allora chiamò a raccolta il paese ed espose le intimidazioni del Vendôme e di comune accordo con la popolazione venne deciso di fuggire attraverso i boschi circostanti nel tentativo di salvarsi ma consapevoli del fatto che al loro ritorno non avrebbero trovato altro che un cumulo di macerie. Isera fu naturalmente ricostruita e pare che il vecchio centro storico abbia mantenuto da allora la stessa volumetria. Dopo questo grande avvenimento la vita ritornò a scorrere serena e i cittadini ripresero a dedicarsi alle attività manuali per lo più all'agricoltura fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale. Dopo il 20 maggio 1915 i soldati austriaci rastrellarono la zona e arrestarono le persone politicamente sospette che furono rinchiuse nel campo di concentramento di Katzenau. Ma nessuno poté prevedere ciò che successe dopo, la sera del 26 maggio la popolazione di Isera e dei comuni limitrofi venne avvisata della possibilità di un eventuale evacuazione e tra il comune sbigottimento arrivò poi l'ordine del comando militare. Molti però pensavano che l'esilio sarebbe durato una quindicina di giorni non di più ma invece non fu così. I profughi s'avviarono affranti verso la stazione di Rovereto chiedendo se avrebbero rivisto il loro paese, i loro campi e la loro vita. Da Rovereto si passa poi da Insbruck e poi verso il confine della Boemia. I primi nuclei di profughi vengono fatti scendere a Colin e poi a Clumetz successivamente a Politz e avanti così fino all'ultima stazione, Braunau. Inizialmente vennero accolti come veri e propri zingari ma comunque come ricorda Luigi Gentilini le autorità e i privati si mobilitarono per portare aiuto ai più bisognosi con offerte di cibarie ed altro. Diversa fu però l'accoglienza nel distretto di Braunau dove prevaleva la diffidenza e molti furono sistemati in baracche sporche con solo un po' di paglia a far loro da giaciglio. I profughi dispersi qua e la per la Boemia e per la Moravia iniziarono il loro lungo e doloroso esilio. A Braunau il parroco Don. Silvestri si interessa subito dei concittadini e riesce a farsi assegnare una piccola chiesetta (quella si S.Venceslao) e riesce ad ottenere un'aula dove provvisoriamente Mario Bertolini insegnerà agli italiani. Così la vita fu alquanto regolata grazie all'intervento del parroco e altrettanto importante furono le trattative grazie alle quali le sigheraie trovarono lavoro presso una fabbrica manifatturiera trovando quindi occupazione e guadagno. Certo le difficoltà continuavano, spesso mancavano i generi di prima necessità come pane e carne ma altro ostacolo era la lingua, il medico non capiva il malato e il malato non capiva il medico; ci si doveva far intendere a gesti. Ma nonostante ciò i profughi lavorando e adeguandosi riuscirono a riprendere un ritmo di vita quasi normale.
Ben diversa fu la situazione di chi invece era rimasto entro il comune di Isera come il dott. Valerio Rigotti che per la sua professione fu costretto a rimanere e che ha così potuto fornirci informazioni dettagliate sulla situazione che si faceva sempre più disastrosa; le razioni che i tedeschi passavano ai residenti erano davvero esigue e ogni sostanza che sembrava commestibile veniva cotta e mangiata, come ortiche e trifogli. Dopo il ritiro della Russia nel 1917 l'Austria concentrò tutto il suo potere bellico sul fronte italiano avendo inizialmente la meglio. L'esercito italiano però con la forza della disperazione si arrestò sul Piave e respinse gli austriaci costringendoli a una confusa ritirata verso Nord. Durante la notte del 3 novembre le truppe italiane occuparono Rovereto e quando un drappello arrivò a Patone i pochi cittadini presenti si lanciarono verso di loro con grida di gioia ed entusiasmo. Tutto passa e così finì anche la guerra ma il pese si ritrovò inginocchio, le strade esano ricoperte di detriti e le poche case erano cadenti , il campanile era privo delle campane che erano servite per i cannoni e l'archivio parrocchiale era stato distrutto. Solo le 80.000 corone nascoste dal dottor Rigotti si salvarono. Ciò cancellò la gioia del ritorno dei profughi che si trovarono davanti uno scenario devastato dalla guerra e dalla miseria ma ben presto si rimisero tutti al lavoro ricostruendo e riportando alla vita il comune di Isera.
Le prime tracce di civiltà nel comune di Isera risalgono a un'epoca molto remota, infatti, la località "Corsi di Isera" situata tra l'omonimo abitato e quello di Ravazzone di Mori, è circondata da numerose colline di origine vulcanica che a più riprese sono state interessate da ritrovamenti archeologici. L'archeologo Paolo Rossi e in seguito nel 1970 l'inglese Bearfield,grazie ai loro ritrovamenti, collocarono questa stazione in epoca Neolitica. Data la conformazione geografica del territorio, si può inoltre dedurre che il terreno fosse paludoso e inabitabile causa le frequenti inondazioni del fiume Adige, che in quell'epoca doveva avere una portata molto maggiore; si può stabilire quindi, che le piccole comunità insediativi si dedicassero alla pesca e al commercio con le altre comunità stanziate lungo la valle, ciò è testimoniato da ritrovamenti quali selci lavorate tramite scheggiatura che hanno forma di punte di lancia, seghetti ed arpioni.
Vi è poi un importante complesso risalente all'epoca augustea ossia la villa romana, unica in tutta la val d'Adige. Essa è articolata un due quartieri ben distinti e complementari: la pars urbana, con sale di rappresentanza, ambienti di soggiorno e aree balneari decorate da notevoli affreschi e mosaici, e la pars rustica, composta dai locali e dalle strutture necessari al funzionamento produttivo. Mosaici, affreschi murali e ceramiche hanno consentito agli storici non solo di datare la struttura ma anche di dividerla in tre distinte fasi cronologiche, la prima risalente al I secolo d.C.; la seconda in età tardo antica e la terza fase risalente al XVI.
Su una collina, presso la piccola frazione di Cornalè sorgeva poi Castel Pradaglia complesso di origine romana costruito sicuramente sopra i resti di un antico castelliere d'epoca preistorica e il cui nome deriva probabilmente da prataglia che significa località ricoperta di prati infatti i terreni adiacenti dovevano essere in tempi remoti un estensione verde. Esso si trovava in una posizione molto favorevole per gli usi per cui era stato costruito, cioè come mezzo di difesa e di controllo; inoltre l'essere dirimpetto al castello di Lizzana formava una barriera non facilmente superabile. Di questo castello non si hanno dati precisi riguardanti la prima costruzione infatti i primi documenti che ne parlano risalgono al XII secolo. Si sa inoltre che il castello fu posseduto da feudatari fino a detto secolo ma poi fu venduto al Princevescovo di Trento il quale lo affidò a un certo Crescendone de Pradaja. La valle dell'Adige dopo un periodo di tranquillità e pacifica convivenza è stata interessata nel 1703 dall'invasione francese in seguito a una guerra nata per il trono di Spagna che in quell'epoca era molto vasto e comprendeva oltre alla Spagna anche la Sardegna, Napoli, la Sicilia, il Milanese e i Paesi Bassi. I Francesi durante la loro avanzata contro i tedeschi; secondo quanto scritto nell'opuscolo: "Isera, memorie e versi" Il generale francese impose al massaro di Isera, uno dei signori Ravagni, la consegna di un enorme quantità di denaro entro poche ore pena la completa distruzione del paese. Il Ravagni allora chiamò a raccolta il paese ed espose le intimidazioni del Vendôme e di comune accordo con la popolazione venne deciso di fuggire attraverso i boschi circostanti nel tentativo di salvarsi ma consapevoli del fatto che al loro ritorno non avrebbero trovato altro che un cumulo di macerie. Isera fu naturalmente ricostruita e pare che il vecchio centro storico abbia mantenuto da allora la stessa volumetria. Dopo questo grande avvenimento la vita ritornò a scorrere serena e i cittadini ripresero a dedicarsi alle attività manuali per lo più all'agricoltura fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale. Dopo il 20 maggio 1915 i soldati austriaci rastrellarono la zona e arrestarono le persone politicamente sospette che furono rinchiuse nel campo di concentramento di Katzenau. Ma nessuno poté prevedere ciò che successe dopo, la sera del 26 maggio la popolazione di Isera e dei comuni limitrofi venne avvisata della possibilità di un eventuale evacuazione e tra il comune sbigottimento arrivò poi l'ordine del comando militare. Molti però pensavano che l'esilio sarebbe durato una quindicina di giorni non di più ma invece non fu così. I profughi s'avviarono affranti verso la stazione di Rovereto chiedendo se avrebbero rivisto il loro paese, i loro campi e la loro vita. Da Rovereto si passa poi da Insbruck e poi verso il confine della Boemia. I primi nuclei di profughi vengono fatti scendere a Colin e poi a Clumetz successivamente a Politz e avanti così fino all'ultima stazione, Braunau. Inizialmente vennero accolti come veri e propri zingari ma comunque come ricorda Luigi Gentilini le autorità e i privati si mobilitarono per portare aiuto ai più bisognosi con offerte di cibarie ed altro. Diversa fu però l'accoglienza nel distretto di Braunau dove prevaleva la diffidenza e molti furono sistemati in baracche sporche con solo un po' di paglia a far loro da giaciglio. I profughi dispersi qua e la per la Boemia e per la Moravia iniziarono il loro lungo e doloroso esilio. A Braunau il parroco Don. Silvestri si interessa subito dei concittadini e riesce a farsi assegnare una piccola chiesetta (quella si S.Venceslao) e riesce ad ottenere un'aula dove provvisoriamente Mario Bertolini insegnerà agli italiani. Così la vita fu alquanto regolata grazie all'intervento del parroco e altrettanto importante furono le trattative grazie alle quali le sigheraie trovarono lavoro presso una fabbrica manifatturiera trovando quindi occupazione e guadagno. Certo le difficoltà continuavano, spesso mancavano i generi di prima necessità come pane e carne ma altro ostacolo era la lingua, il medico non capiva il malato e il malato non capiva il medico; ci si doveva far intendere a gesti. Ma nonostante ciò i profughi lavorando e adeguandosi riuscirono a riprendere un ritmo di vita quasi normale.
Ben diversa fu la situazione di chi invece era rimasto entro il comune di Isera come il dott. Valerio Rigotti che per la sua professione fu costretto a rimanere e che ha così potuto fornirci informazioni dettagliate sulla situazione che si faceva sempre più disastrosa; le razioni che i tedeschi passavano ai residenti erano davvero esigue e ogni sostanza che sembrava commestibile veniva cotta e mangiata, come ortiche e trifogli. Dopo il ritiro della Russia nel 1917 l'Austria concentrò tutto il suo potere bellico sul fronte italiano avendo inizialmente la meglio. L'esercito italiano però con la forza della disperazione si arrestò sul Piave e respinse gli austriaci costringendoli a una confusa ritirata verso Nord. Durante la notte del 3 novembre le truppe italiane occuparono Rovereto e quando un drappello arrivò a Patone i pochi cittadini presenti si lanciarono verso di loro con grida di gioia ed entusiasmo. Tutto passa e così finì anche la guerra ma il pese si ritrovò inginocchio, le strade esano ricoperte di detriti e le poche case erano cadenti , il campanile era privo delle campane che erano servite per i cannoni e l'archivio parrocchiale era stato distrutto. Solo le 80.000 corone nascoste dal dottor Rigotti si salvarono. Ciò cancellò la gioia del ritorno dei profughi che si trovarono davanti uno scenario devastato dalla guerra e dalla miseria ma ben presto si rimisero tutti al lavoro ricostruendo e riportando alla vita il comune di Isera.