Nell'odierno giro organizzato dal Museo Diocesano Tridentino si và sulle tracce di un pezzo importante nella storia cristiana di Trento che ebbe influssi altresì sull'intera comunità religiosa europea, non molti anni prima che Lutero enunciasse le sue teorie e dividesse ulteriormente la cristianità.
05 novembre: Sulle tracce del Simonino
Anche se la festa liturgica di questa singolare figura di beato fanciullo è stata eliminata nel 1965, vale la pena di ricordarla per le implicazioni sociali e religiose che dal lontano 1475 aveva impresso nella società trentina.
Il piccolo Simone, chiamato poi nei secoli Simonino, figlio del conciacapelli Andrea (parrucchiere dell’epoca), all’età di due anni e mezzo, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475, ricorrenza del giovedì santo e il suo corpo dopo convulse ricerche fu ritrovato la mattina del 26 nel giorno di Pasqua, in condizioni strazianti, in un fosso d'acqua che attraversava lo scantinato della casa, di uno dei maggiori rappresentanti degli ebrei di Trento.
Per una serie di circostanze, di tempo, di luogo e di clima creatasi dopo la predicazione recente del beato Bernardino da Feltre, con riferimenti antisemiti, si instaurò subito la certezza che l’omicidio fosse dovuto ad un rituale perpetrato dagli ebrei.
Furono imprigionate una trentina di persone, tutte appartenenti alle tre famiglie di ebrei allora residenti in Trento, quelle degli usurai Samuele ed Angelo e del medico Tobia; per ordine del principe-vescovo Giovanni Hinderbach furono sottoposti a processo, che fece largo uso della tortura, per cui alla fine finirono per confessarsi colpevoli.
Nonostante gli interventi del papa Sisto IV e dell’arciduca Sigismondo del Tirolo, per niente favorevoli all’agire del principe-vescovo trentino, il processo proseguì con estrema durezza, fino alla condanna a morte e relativa esecuzione di 15 dei presunti rei e la confisca dei loro beni.
Sono conservati gli Atti del processo a Roma, a Trento e Vienna, importantissimi perché testimoniano gli sforzi fatti per accreditare l’omicidio rituale agli ebrei con l’opinione che simili riti avvenissero anche in altre città e con una certa frequenza.
La morte avvenuta per un rito del piccolo Simonino, dava l’opportunità al principe-vescovo Hinderbach di considerarlo un martire e quindi iniziò un culto con vasta azione propagandistica sia con scritti di autori umanistici (prima stampa nel 1475) sia con la predicazione, in particolare dei francescani del Trentino e regioni vicine.
Il papa Sisto IV proibì sotto pena di scomunica il culto al beato Simonino, perché non era chiaro il motivo della morte del piccolo. Ma la venerazione dei fedeli provenienti da ogni parte d’Europa, dietro la fama dei miracoli avvenuti, si diceva per sua intercessione, fece sì che il culto divenisse un culto di fatto, superando anche la proibizione papale.
Il culto persisteva nel secolo successivo, al punto che nel 1584, Cesare Baronio inseriva il suo nome nel ‘Martirologio Romano’ e nel 1588 su richiesta del vescovo di Trento, il papa Sisto V, concesse la festa e Messa propria, dando così l’assenso ad una formale beatificazione.
Il culto invece di scemare aumentò nei secoli successivi fino ai nostri giorni, soprattutto nell’epoca barocca, suscitando tutta una produzione artistica locale. Luoghi centri del culto furono le cappelle erette nei luoghi dell’uccisione, del rapimento e nella chiesa di S. Pietro dove era il corpicino imbalsamato.
Oltre la celebrazione annuale del 24 marzo, vi era fino al 1955 una sontuosa processione decennale con il corpo del fanciullo e i reliquiari con gli strumenti del presunto martirio. L’omicidio, la cacciata degli ebrei dal Trentino, le sentenze di colpevolezza e le esecuzioni capitali, suscitarono sempre la contestazione ebraica, con relativa condanna finché fosse praticato il culto del beato Simonino.
La questione coinvolse studiosi, giuristi, teologi, specie nell’800 sia da parte cattolica sia da parte ebraica; finché nel ‘900 studi più approfonditi di commissioni di studiosi, portarono a conclusioni onestamente accettabili, di esclusione di riti ebraici nell’omicidio.
Pertanto il vescovo di Trento A. M. Gottardi, il 28 ottobre 1965, abrogò ufficialmente il culto del beato Simonino di Trento, con il pieno consenso della S. Sede e con soddisfazione del mondo ebraico, che si vide togliere il sospetto di praticare riti sanguinari; bisogna ricordare che analoga accusa fu fatta ai cristiani delle catacombe dei primi tempi.
Gli artisti furono chiamati, nei cinque secoli del culto, ad immortalare con ogni forma di arte, il martirio, i resti tagliati, la figurina benedicente, in piedi su un tavolo o legato ad una croce del piccolo Simonino, comunque beato in Dio; vittima innocente, come in tutti i tempi di omicidi oscuri e orribili, che ogni tanto vengono perpetrati quali simbolo del male che continuamente si aggira nell’umanità, qualunque sia la mano assassina.
Autore: Antonio Borrelli
Il piccolo Simone, chiamato poi nei secoli Simonino, figlio del conciacapelli Andrea (parrucchiere dell’epoca), all’età di due anni e mezzo, scomparve misteriosamente la sera del 23 marzo 1475, ricorrenza del giovedì santo e il suo corpo dopo convulse ricerche fu ritrovato la mattina del 26 nel giorno di Pasqua, in condizioni strazianti, in un fosso d'acqua che attraversava lo scantinato della casa, di uno dei maggiori rappresentanti degli ebrei di Trento.
Per una serie di circostanze, di tempo, di luogo e di clima creatasi dopo la predicazione recente del beato Bernardino da Feltre, con riferimenti antisemiti, si instaurò subito la certezza che l’omicidio fosse dovuto ad un rituale perpetrato dagli ebrei.
Furono imprigionate una trentina di persone, tutte appartenenti alle tre famiglie di ebrei allora residenti in Trento, quelle degli usurai Samuele ed Angelo e del medico Tobia; per ordine del principe-vescovo Giovanni Hinderbach furono sottoposti a processo, che fece largo uso della tortura, per cui alla fine finirono per confessarsi colpevoli.
Nonostante gli interventi del papa Sisto IV e dell’arciduca Sigismondo del Tirolo, per niente favorevoli all’agire del principe-vescovo trentino, il processo proseguì con estrema durezza, fino alla condanna a morte e relativa esecuzione di 15 dei presunti rei e la confisca dei loro beni.
Sono conservati gli Atti del processo a Roma, a Trento e Vienna, importantissimi perché testimoniano gli sforzi fatti per accreditare l’omicidio rituale agli ebrei con l’opinione che simili riti avvenissero anche in altre città e con una certa frequenza.
La morte avvenuta per un rito del piccolo Simonino, dava l’opportunità al principe-vescovo Hinderbach di considerarlo un martire e quindi iniziò un culto con vasta azione propagandistica sia con scritti di autori umanistici (prima stampa nel 1475) sia con la predicazione, in particolare dei francescani del Trentino e regioni vicine.
Il papa Sisto IV proibì sotto pena di scomunica il culto al beato Simonino, perché non era chiaro il motivo della morte del piccolo. Ma la venerazione dei fedeli provenienti da ogni parte d’Europa, dietro la fama dei miracoli avvenuti, si diceva per sua intercessione, fece sì che il culto divenisse un culto di fatto, superando anche la proibizione papale.
Il culto persisteva nel secolo successivo, al punto che nel 1584, Cesare Baronio inseriva il suo nome nel ‘Martirologio Romano’ e nel 1588 su richiesta del vescovo di Trento, il papa Sisto V, concesse la festa e Messa propria, dando così l’assenso ad una formale beatificazione.
Il culto invece di scemare aumentò nei secoli successivi fino ai nostri giorni, soprattutto nell’epoca barocca, suscitando tutta una produzione artistica locale. Luoghi centri del culto furono le cappelle erette nei luoghi dell’uccisione, del rapimento e nella chiesa di S. Pietro dove era il corpicino imbalsamato.
Oltre la celebrazione annuale del 24 marzo, vi era fino al 1955 una sontuosa processione decennale con il corpo del fanciullo e i reliquiari con gli strumenti del presunto martirio. L’omicidio, la cacciata degli ebrei dal Trentino, le sentenze di colpevolezza e le esecuzioni capitali, suscitarono sempre la contestazione ebraica, con relativa condanna finché fosse praticato il culto del beato Simonino.
La questione coinvolse studiosi, giuristi, teologi, specie nell’800 sia da parte cattolica sia da parte ebraica; finché nel ‘900 studi più approfonditi di commissioni di studiosi, portarono a conclusioni onestamente accettabili, di esclusione di riti ebraici nell’omicidio.
Pertanto il vescovo di Trento A. M. Gottardi, il 28 ottobre 1965, abrogò ufficialmente il culto del beato Simonino di Trento, con il pieno consenso della S. Sede e con soddisfazione del mondo ebraico, che si vide togliere il sospetto di praticare riti sanguinari; bisogna ricordare che analoga accusa fu fatta ai cristiani delle catacombe dei primi tempi.
Gli artisti furono chiamati, nei cinque secoli del culto, ad immortalare con ogni forma di arte, il martirio, i resti tagliati, la figurina benedicente, in piedi su un tavolo o legato ad una croce del piccolo Simonino, comunque beato in Dio; vittima innocente, come in tutti i tempi di omicidi oscuri e orribili, che ogni tanto vengono perpetrati quali simbolo del male che continuamente si aggira nell’umanità, qualunque sia la mano assassina.
Autore: Antonio Borrelli
La vicenda di Simonino è entrata nell'arte sacra, con dipinti, sculture ed incisioni che lo raffigurano e che ne illustrano il presunto martirio.Tra la produzione artistica di più alto significato, si deve menzionare l'intaglio ligneo conservato presso il museo diocesano tridentino, proveniente dalla chiesa di San Pietro. L'opera, databile tra il 1505 e il 1515, faceva parte di un Flügelaltar ed è stata attribuita alla bottega di Niklaus Weckmann; essa segue – con la esibizione dei gesti e degli strumenti dell'omicidio rituale – un modello iconografico relativo al martirio di Simonino che si era diffuso già alla fine del XV secolo e che sarà popolare anche in epoca più tarda.Sulla facciata del rinascimentale Palazzo Salvadori a Trento (edificato dove, prima della dispersione della comunità ebraica, sorgeva la sinagoga) sono stati posti nel XVIII secolo due medaglioni in pietra di Francesco Oradini con il martirio e la gloria di Simonino: la scena del martirio riproduce quasi letteralmente quella intagliata, secoli prima, da Niklaus Weckmann.Commissioni di raffigurazioni pittoriche di Simonino coinvolsero, nel XVI secolo, artisti di primo piano come testimonia, al Castello del Buonconsiglio, il quadretto realizzato nel 1521 da Altobello Melone, toccante per la malinconica espressione del fanciullo. Su un diverso piano abbiamo le raffigurazioni di Simonino create dalla fede popolare. Testimonianze della diffusione raggiunta dal culto di Simonino, si trovano in molte chiese e cappelle, anche fuori dal Trentino (in particolare nel bresciano). Ad esempio, a Bienno, in Valcamonica, troviamo nella chiesa di Santa Maria Annunciata ben quattro affreschi a lui dedicati, databili attorno alla fine del XV secolo, connotati da grande semplicità di esecuzione; alcuni di essi rappresentano semplicemente degli ex voto fatti eseguire da alcuni fedeli "per grazia ricevuta". In chiave di propaganda antigiudaica e richiamo ai contenuti delle predicazioni itineranti dei frati osservanti, va interpretato l'affresco votivo eseguito dalla bottega di Campilio da Spello nella cripta della chiesa di San Ponziano a Spoleto. Nella prima navata di sinistra si trovano infatti raffigurati Bernardino da Siena, santo dell'osservanza minoritica, e il piccolo Simone da Trento, sul cui corpo sono visibili i segni del martirio.
Da: wikipedia
Da: wikipedia
Per completezza d'informazione pubblico anche l'articolo in cui Ariel Toaff nel 2007, controcorrente in primis alla propria comunità ebrea, sostiene nel suo libro il contrario rispetto alle moderne conclusioni cui sono arrivati alcuni studiosi e che dimostrerebbero, sulla base di contraddizioni molto evidenti negli atti processuali, che il processo e la colpevolezza attribuita agli ebrei allora residenti a Trento furono costruiti ad hoc o comunque influenzati dal clima di tensione sociale presente in città.
La verità su San Simonino e le condanne rituali Simonino, caso da riaprire
Il professor Ariel Toaff non ha esitazioni: «Il caso del Simonino va riaperto, perché c’è ragione di ritenere verosimile l’infanticidio rituale»
Articolo di Zenone Sovilla
Fonte: L’Adige, 8 febbraio 2007
Il professor Ariel Toaff non ha esitazioni: «Il caso del Simonino va riaperto, perché c’è ragione di ritenere verosimile l’infanticidio rituale. Dopo otto anni di ricerche, ritengo di aver dimostrato che quella di Trento è una delle rare vicende che non si possono liquidare semplicemente come frutto delle diffuse calunnie antisemite».
La tesi è frutto di una ricerca storica sfociata nel volume "Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali" (Il Mulino, 364 pagine, 25 euro), atteso oggi in libreria, che prima ancora di uscire ha suscitato reazioni di segno contrastante, compresa una protesta della comunità ebraica italiana cui appartiene lo stesso autore, che è anche docente universitario di storia in Israele.
Professor Toaff, oggi la ricostruzione storiografica dell’episodio del piccolo Simone assolve la comunità ebraica trentina (venuta dalla Germania) e inscrive gli avvenimenti nel vasto ambito della propaganda antigiudaica. Al punto da ritenere false, in quanto estorte sotto dettatura tramite sevizie, le stesse confessioni degli ebrei accusati di aver ucciso il bimbo per utilizzarne il sangue nei riti pasquali di quel marzo del 1475. Lei, ora, ritiene di avere elementi per considerare veritiere quelle deposizioni: su che cosa basa le sue conclusioni?
«Innanzitutto, bisogna contestualizzare. L’ebraismo germanico veniva da un periodo massacrante, aveva subito persecuzioni spietate in seguito alle crociate: uccisioni di donne e bambini, conversioni forzate, violenze crudeli. Si pensi che le madri arrivavano a sopprimere i figli, che i maestri assassinavano i discepoli, pur di evitare che fossero trascinati al fonte battesimale dai cristiani. Dopo questi fatti, alcune frange minoritarie svilupparono un forte desiderio di vendetta, speculare a quanto avevano subìto. In particolare, si trattava di comunità riconducibili all’epicentro ashkenazita dell’area di Norimberga, come quella presente a Trento».
Veniamo al processo per la morte di Simone…
«In sostanza, l’analisi di quegli atti e di altri documenti mi spinge a considerare inverosimile che i giudici avessero potuto mettere in bocca agli imputati, che si esprimevano in una sorta di ebraico tedesco, racconti così densi di riferimenti precisi alla tradizione, ai riti, alla memoria di queste comunità di area germanica. Non è possibile che i funzionari pubblici conoscessero tutto ciò, quindi quelle testimonianze non potevano essere frutto di un’estorsione né una proiezione del pensiero dei giudici».
Come ha proceduto in questo suo lavoro di analisi storico-filologica?
«Ho cominciato tralasciando gli aspetti più problematici della questione: la Pasqua, il sangue per le azzime di Pesach eccetera. Così ho verificato che per tutto il resto vi sono riscontri storici al cento per cento. Per fare un esempio, un teste menziona un conoscente, tale Asher, un ebreo condannato a Venezia per usura: ho controllato ed era tutto vero. A questo punto, mi sono concentrato sulle celebrazioni pasquali e ho comparato le deposizioni trentine con i testi delle comunità ebraiche presenti all’epoca in Germania: anche qui la corrispondenza è perfetta».
Rimaneva il nucleo della controversia: l’ipotesi di omicidio rituale…
«Sì, l’ultimo scoglio erano le testimonianze che facevano riferimento proprio al sacrificio del Simonino. Ed è qui che l’aspetto linguistico diventa fondamentale. Era un ebraico storpiato che si diceva aggiungesse un alone esotico e satanico su queste comunità. L’ho riportato alla pronuncia non italiana ma tedesca, ho cercato le possibili varianti semantiche e ho ricostruito riferimenti a un certo ambiente norimberghese dell’ebraismo. In questo modo è emerso chiaramente che il discorso in ebraico ashkenazita degli ebrei di Trento non poteva essere stato indotto da non appartenenti alla comunità. E dunque le confessioni si possono ritenere credibili. Non dimentichiamo che stiamo parlando di una minoranza di fondamentalisti che non erano rappresentativi dell’intera galassia religiosa: il mondo ebraico di allora era variegato quanto quello islamico oggi, che al suo interno alberga pure piccole frange di terroristi».
Quindi lei sostiene che il caso di Trento fu un’eccezione e non nega affatto che gli ebrei in linea generale sono stati vittime di una calunnia storica anche in relazione agli infanticidi…
«Certo, la grande maggioranza degli episodi di cui parliamo è stata attribuita impropriamente agli ebrei, in forza di una propaganda alimentata da gruppi di potere religioso, cattolici o musulmani. Se il caso di Cogne fosse avvenuto nel ‘400, la vulgata avrebbe incolpato gli ebrei. In realtà, per quanto mi risulta, da noi a essere problematica è proprio la singola vicenda di Trento: me ne occupo in otto capitoli del mio libro, nei quali una lunga serie di elementi conforta chiaramente la tesi che l’infanticidio sia effettivamente accaduto».
Una conclusione che ha destato un certo sgomento nella comunità ebraica, a cominciare da suo padre, rabbino emerito di Roma…
«Hanno protestato prima ancora di leggere il libro. Immagino che anche a Trento ci siano state reazioni. Io sono pronto al confronto, ma prima desidero che l’interlocutore si informi sulle mie ricerche. Chi mi risponde ricordando, tra l’altro, che la tradizione ebraica proibiva l’uso di sangue umano nei rituali non aggiunge nulla di serio all’analisi scientifica: qui stiamo parlando di schegge fanatiche che infrangevano quel divieto. D’altra parte, diversi colleghi che si sono avvicinati al mio lavoro concordano con la mia ricostruzione circa la presenza di quelle comunità ebraiche violentemente anticristiane che al loro interno contavano presenze assai virulente e aggressive. Al limite, può esserci qualcuno che conserva perplessità sull’ultimo anello della mia ricostruzione, cioè sull’omicidio rituale. Per parte mia, invece, ritengo non vi sia margine di dubbio sul piano storiografico. Perciò credo che a Trento sarebbe corretto riaprire quel capitolo sulla base dei nuovi elementi contenuti nel mio libro».
La verità su San Simonino e le condanne rituali Simonino, caso da riaprire
Il professor Ariel Toaff non ha esitazioni: «Il caso del Simonino va riaperto, perché c’è ragione di ritenere verosimile l’infanticidio rituale»
Articolo di Zenone Sovilla
Fonte: L’Adige, 8 febbraio 2007
Il professor Ariel Toaff non ha esitazioni: «Il caso del Simonino va riaperto, perché c’è ragione di ritenere verosimile l’infanticidio rituale. Dopo otto anni di ricerche, ritengo di aver dimostrato che quella di Trento è una delle rare vicende che non si possono liquidare semplicemente come frutto delle diffuse calunnie antisemite».
La tesi è frutto di una ricerca storica sfociata nel volume "Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali" (Il Mulino, 364 pagine, 25 euro), atteso oggi in libreria, che prima ancora di uscire ha suscitato reazioni di segno contrastante, compresa una protesta della comunità ebraica italiana cui appartiene lo stesso autore, che è anche docente universitario di storia in Israele.
Professor Toaff, oggi la ricostruzione storiografica dell’episodio del piccolo Simone assolve la comunità ebraica trentina (venuta dalla Germania) e inscrive gli avvenimenti nel vasto ambito della propaganda antigiudaica. Al punto da ritenere false, in quanto estorte sotto dettatura tramite sevizie, le stesse confessioni degli ebrei accusati di aver ucciso il bimbo per utilizzarne il sangue nei riti pasquali di quel marzo del 1475. Lei, ora, ritiene di avere elementi per considerare veritiere quelle deposizioni: su che cosa basa le sue conclusioni?
«Innanzitutto, bisogna contestualizzare. L’ebraismo germanico veniva da un periodo massacrante, aveva subito persecuzioni spietate in seguito alle crociate: uccisioni di donne e bambini, conversioni forzate, violenze crudeli. Si pensi che le madri arrivavano a sopprimere i figli, che i maestri assassinavano i discepoli, pur di evitare che fossero trascinati al fonte battesimale dai cristiani. Dopo questi fatti, alcune frange minoritarie svilupparono un forte desiderio di vendetta, speculare a quanto avevano subìto. In particolare, si trattava di comunità riconducibili all’epicentro ashkenazita dell’area di Norimberga, come quella presente a Trento».
Veniamo al processo per la morte di Simone…
«In sostanza, l’analisi di quegli atti e di altri documenti mi spinge a considerare inverosimile che i giudici avessero potuto mettere in bocca agli imputati, che si esprimevano in una sorta di ebraico tedesco, racconti così densi di riferimenti precisi alla tradizione, ai riti, alla memoria di queste comunità di area germanica. Non è possibile che i funzionari pubblici conoscessero tutto ciò, quindi quelle testimonianze non potevano essere frutto di un’estorsione né una proiezione del pensiero dei giudici».
Come ha proceduto in questo suo lavoro di analisi storico-filologica?
«Ho cominciato tralasciando gli aspetti più problematici della questione: la Pasqua, il sangue per le azzime di Pesach eccetera. Così ho verificato che per tutto il resto vi sono riscontri storici al cento per cento. Per fare un esempio, un teste menziona un conoscente, tale Asher, un ebreo condannato a Venezia per usura: ho controllato ed era tutto vero. A questo punto, mi sono concentrato sulle celebrazioni pasquali e ho comparato le deposizioni trentine con i testi delle comunità ebraiche presenti all’epoca in Germania: anche qui la corrispondenza è perfetta».
Rimaneva il nucleo della controversia: l’ipotesi di omicidio rituale…
«Sì, l’ultimo scoglio erano le testimonianze che facevano riferimento proprio al sacrificio del Simonino. Ed è qui che l’aspetto linguistico diventa fondamentale. Era un ebraico storpiato che si diceva aggiungesse un alone esotico e satanico su queste comunità. L’ho riportato alla pronuncia non italiana ma tedesca, ho cercato le possibili varianti semantiche e ho ricostruito riferimenti a un certo ambiente norimberghese dell’ebraismo. In questo modo è emerso chiaramente che il discorso in ebraico ashkenazita degli ebrei di Trento non poteva essere stato indotto da non appartenenti alla comunità. E dunque le confessioni si possono ritenere credibili. Non dimentichiamo che stiamo parlando di una minoranza di fondamentalisti che non erano rappresentativi dell’intera galassia religiosa: il mondo ebraico di allora era variegato quanto quello islamico oggi, che al suo interno alberga pure piccole frange di terroristi».
Quindi lei sostiene che il caso di Trento fu un’eccezione e non nega affatto che gli ebrei in linea generale sono stati vittime di una calunnia storica anche in relazione agli infanticidi…
«Certo, la grande maggioranza degli episodi di cui parliamo è stata attribuita impropriamente agli ebrei, in forza di una propaganda alimentata da gruppi di potere religioso, cattolici o musulmani. Se il caso di Cogne fosse avvenuto nel ‘400, la vulgata avrebbe incolpato gli ebrei. In realtà, per quanto mi risulta, da noi a essere problematica è proprio la singola vicenda di Trento: me ne occupo in otto capitoli del mio libro, nei quali una lunga serie di elementi conforta chiaramente la tesi che l’infanticidio sia effettivamente accaduto».
Una conclusione che ha destato un certo sgomento nella comunità ebraica, a cominciare da suo padre, rabbino emerito di Roma…
«Hanno protestato prima ancora di leggere il libro. Immagino che anche a Trento ci siano state reazioni. Io sono pronto al confronto, ma prima desidero che l’interlocutore si informi sulle mie ricerche. Chi mi risponde ricordando, tra l’altro, che la tradizione ebraica proibiva l’uso di sangue umano nei rituali non aggiunge nulla di serio all’analisi scientifica: qui stiamo parlando di schegge fanatiche che infrangevano quel divieto. D’altra parte, diversi colleghi che si sono avvicinati al mio lavoro concordano con la mia ricostruzione circa la presenza di quelle comunità ebraiche violentemente anticristiane che al loro interno contavano presenze assai virulente e aggressive. Al limite, può esserci qualcuno che conserva perplessità sull’ultimo anello della mia ricostruzione, cioè sull’omicidio rituale. Per parte mia, invece, ritengo non vi sia margine di dubbio sul piano storiografico. Perciò credo che a Trento sarebbe corretto riaprire quel capitolo sulla base dei nuovi elementi contenuti nel mio libro».